Moncalieri, 6 settembre 2015
Cibo, cultura, economia
I recenti dati sull'Expo mi hanno suggerito delle riflessioni in merito alle grandi manifestazioni in generale e a quest'ultima in particolare.
In via di analisi teorica, io sono contrario alle grandi manifestazioni, che impegnano fiumi di denaro ed alla fine lasciano in eredità impianti ed edifici, spesso non più utilizzabili. Ma … c'è sempre un ma quando si passa dalle analisi teoriche alla pratica delle vicende umane; cercherò di spiegare perché penso che, in fondo, grandi manifestazioni come l'Expo siano una cosa utile e , forse, anche necessaria.
Le grandi manifestazioni, come già detto, costano enormemente in termini di risorse finanziarie, ma muovono anche le economie del territorio, con tutte le devianze e gli inconvenienti che, in genere, sono conseguenti alle grandi opere. L'obiezione più immediata alla mia precedente osservazione è che analoghi flussi finanziari, ove fossero destinati ad eseguire una serie di piccoli interventi mirati produrrebbero un effetto sullo sviluppo economico e sociale dei territori interessati qualitativamente e quantitativamente molto più elevato. Il problema è, però, che se non si fosse fatto l'Expo le risorse finanziarie destinate a questa manifestazione non sarebbero state indirizzate verso una miriade di investimenti più utili (o magari necessari): semplicemente non ci sarebbe stata alcuna movimentazione di denaro in quantità rilevante. Non mi voglio dilungare oltre a spiegare questa tesi, perché è evidente che la storia dell'umanità procede più per grandi progetti, anche spesso apparentemente insensati, che per analisi ragionate delle necessità.
Ho riletto nei giorni scorsi l'articolo dell'amico Alberto Cavallo su Eurinome che riguarda l'Expo; come di consueto, mi sono trovato d'accordo su molte argomenti da lui citati riguardo la politica e gli ideali, argomenti analoghi a quelli da me espressi in altri miei scritti; non condivido appieno quello che viene detto nell'articolo sull'Expo.
La produzione alimentare è da sempre stata il punto di partenza di ogni grande civiltà: i Romani erano gli uomini del grano, i Maia gli uomini del granoturco, i Cinesi del riso, per fare alcuni esempi storici. Venendo ai giorni nostri, la supremazia mondiale degli Stati Uniti è dovuta certamente alle tecnologie di avanguardia, che supportano un esercito efficiente, almeno fino ad un recente passato, ma anche al fatto che il Middle West è il granaio del mondo. In particolare , mi interessa mettere in evidenza che non c'è contraddizione fra lo sviluppo di tecnologie avanzate, cultura e sviluppo delle produzioni alimentari in un dato territorio; anzi, tali manifestazioni del sapere umano sono correlate e procedono spesso di pari passo.
L'agricoltura degli Stati Uniti è una perfetta macchina industriale, che assorbe concimi, anticrittogamici e enormi quantità di altri prodotti chimici per produrre generi alimentari. Le tecnologie che l'accompagnano di pari passo sono avanzatissime (basti pensare agli enormi sforzi scientifici fatti per lo sviluppo delle specie transgeniche, da molti contestate). Ma, per venire all'Italia, non è un caso il fatto che lo sviluppo di prodotti alimentari di alta qualità sia avvenuto prevalentemente nelle regioni a più alto tasso di industrializzazione. Se diciamo “Barolo” ci riferiamo al Piemonte, se parliamo di Parmigiano all'Emilia, se sentiamo Franciacorta pensiamo ad una delle provincie più industrializzate d'Italia.
Una piccola digressione: nei miei lontanissimi, approssimativi, studi di economia avevo letto che il passaggio dall'agricoltura all'industria avviene attraverso l'industrializzazione dell'agricoltura, per produrre i capitali necessari allo sviluppo industriale. Negli ultimi anni ho potuto notare come in molte zone del Piemonte, così come penso in altre regioni industrializzate d'Italia, molti capitali prodotti dall'industria sono stati indirizzati allo sviluppo di un'agricoltura di alta qualità, che ha dato spesso ottimi risultati. Ampie zone del Piemonte, che sul finire degli anni sessanta del secolo scorso si erano impoverite, tanto economicamente quanto umanamente, per l'emigrazione verso i grandi stabilimenti industriali, sono tornate a rifiorire, grazie agli investimenti agricoli e ai conseguenti flussi turistici.
Nel caso della produzione alimentare penso che molti produttori italiani abbiano imboccato la via giusta: produrre prodotti raffinati e di alta qualità, ad alto costo ma anche ad alto prezzo di vendita. La scelta opposta, di produrre alte quantità a prezzi bassi sarebbe certamente perdente: non è pensabile in Italia produrre in concorrenza con gli Stati Uniti ed il Canada, con le loro perfettamente industrializzate e collaudatissime produzioni di massa;non è neppure possibile competere con le produzioni di massa di Cina, India e tutti gli altri paesi emergenti con i loro bassi costi di manodopera. Non è stata una scelta ovvia, come può apparire oggi: ricordo che appena giunto a Torino avevo sentito che alcuni viticoltori parlavano di espiantare le viti di Nebiolo per sostituirle con viti a più alta produzione per ettaro, quali quelle di Barbera.
L'amico Alberto ha ragione quando cita la decadenza dell'Italia in campo artistico musicale, ma la stessa decadenza abbiamo rischiato, e rischiamo, di avere in campo alimentare: la pizza non è più certo appannaggio di produttori italiani e i fast food (McDonald's in testa) hanno conquistato le simpatie di moltissimi giovani. Ora, anche il cibo è cultura: se sento l'odore del finocchietto selvatico in un piatto di pasta con le sarde, questo mi rievoca memorie di paesaggi siciliani come un quadro o una poesia del posto; se odoro una terrina di bagna càuda, la mente mi riporta ad una tavolata con i canti degli Alpini in Piemonte. Il cibo non produce solo camerieri di basso livello ai tavoli o inservienti in cucina: fra gli emigranti italiani della mia generazione c'erano i migliori ed i più apprezzati chef, maitre e direttori di hotel del mondo; spesso si erano formati negli istituti turistici italiani. In Italia esistono già da parecchi anni centri di studio con dignità universitaria in campo eno-gastronomico, che testimoniano l'importanza che l'argomento ha assunto.
In conclusione, il cibo rappresenta per l'Italia un notevole ambito culturale, ma soprattutto una fonte rilevante di aiuto economico e non penso che la scelta del cibo come tema per l'Expo sia stata sbagliata: troppi e troppo grandi sono gli interessi in materia per il nostro paese.
Con ciò non vorrei essere frainteso: ritengo che la cultura alimentare sia importantissima per l'Italia, ma non posso che essere d'accordo con Alberto sul fatto che il declino delle produzioni di elevato contenuto tecnologico in Italia sia, purtroppo, in atto e che bisognerebbe fare di tutto per evitarlo.
Pietro Immordino
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